Il delitto di Via Macello: la storia del caso Olivo
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- 16 dicembre 2025
L’omicidio, lo smembramento del corpo, l’occultamento in una valigia e il macabro tentativo di farla sparire per sempre gettandola in mare: il caso che nel 1903 sconvolse Milano e fece discutere tutta l’Italia
Nel cuore di una Milano che nel 1903 stava ridefinendo il proprio volto tra industria, modernità e tensioni sociali, un vicolo popolare ben lontano dalle grandi vie dei salotti aristocratici divenne teatro di una tragedia destinata a scuotere l’opinione pubblica italiana. Era il quartiere di Porta Genova, periferico ma vibrante di botteghe, osterie e famiglie di lavoratori. Tra questi, in un modesto appartamento di Via Macello al civico 25 (oggi Via Modestino), si consumò la vicenda che sarebbe entrata nella storia giudiziaria come il caso Olivo.
Alberto Olivo: il ragioniere silenzioso
Alberto Olivo non era un nome noto nelle pagine patinate dei giornali milanesi, né un personaggio di spicco nel clima culturale lombardo di inizio Novecento. Ma agli occhi di amici, colleghi e vicini di casa, era considerato un uomo colto, di buona educazione e perfino appassionato di poesia e matematica. Nato a Udine nel 1856 da una famiglia modesta, Olivo aveva studiato diligentemente e si era guadagnato, con fatica, un posto come ragioniere alla Richard Ginori, la celebre fabbrica di porcellane sul Naviglio Grande dove la precisione dei conti era tanto importante quanto la qualità delle ceramiche prodotte. Era un lavoro stabile e rispettabile, e per un tempo fu motivo di orgoglio personale per l’uomo che alternava i numeri con qualche verso poetico nei ritagli di tempo.
Nonostante la sua immagine di impiegato diligente, Olivo era anche un uomo complesso, segnato da fragilità interiori, ipocondrie e un carattere incline all’isolamento. La sua personalità, almeno nelle testimonianze indirette lasciate nelle cronache di tempo, si delineava come quella di un individuo che faticava a conciliare la propria sensibilità con le pressioni della vita quotidiana.
Ernestina Beccaro: la giovane dalla vita turbolenta
Di contro, la figura di Ernestina Beccaro emergeva come uno dei simboli più vivaci e contraddittori della gioventù femminile urbana di quel tempo. Originaria di Biella, Ernestina era arrivata a Milano con aspirazioni e passioni che andavano ben oltre il semplice ruolo di moglie e casalinga. Giovanissima, aveva lavorato come cameriera in una trattoria, dove la sua bellezza e il suo temperamento vivace avevano catturato l’attenzione di molti, incluso quella di Olivo, che la incontrò nel 1895 e se ne innamorò.
Le cronache dell’epoca e le ricostruzioni successive la dipinsero come una donna di forte temperamento, schietta, licenziosa secondo i canoni morali dell’epoca, persino tacciata dai vicini di rapporti occasionali con altri uomini prima e dopo il matrimonio. Il contrasto tra l’erudito ragioniere, risparmiatore e riflessivo, e la sua giovane consorte, spigliata e indipendente nei modi, gettò da subito le basi per un rapporto difficile.
Un matrimonio di tensioni crescenti
Nel gennaio del 1895, dopo una breve convivenza, Alberto e Ernestina si sposarono. All’inizio la “società familiare” sembrò promettere solidità: un certo equilibrio tra il lavoro di lui e le faccende domestiche di lei. Ma ben presto emersero fratture profonde. Il carattere vivace di Ernestina, l’abitudine a frequentare locali e a spendere il denaro in abiti e serate, secondo i vicini irritava Olivo, che vedeva ogni lira spesa come un’occasione mancata per risparmiare o investire nei conti della casa. Anche le discussioni per futili motivi cominciarono a ripetersi con frequenza sempre maggiore.
I vicini di casa ricordarono in seguito schermaglie verbali così feroci da echeggiare per le scale del palazzo, con Ernestina che non esitava a rinfacciare al marito l’avarizia, la rigidità o l’essere «rompiscatole», espressioni che nel contesto sociale dell’epoca, seppur comuni in furiosi dissidi domestici, suonavano insolite per chi aveva sempre visto in Olivo un uomo mite e composto.
Il clima di una casa sull’orlo del baratro
Nel corso degli anni, questa dinamica di conflitti si fece così intensa da scalfire la reputazione di quella coppia presso la comunità di Porta Genova. Il contrasto tra l’uomo razionale, intrinsecamente riservato, e la donna disinvolta, spesso considerata troppo emancipata nei modi e nello stile di vita, divenne elemento di discussione tra amici e conoscenti, contribuendo a creare un alone di tensione permanente.
E fu proprio in questo clima di ostilità crescente, fatto di parole dure, di accuse e di frustrazioni accumulate giorno dopo giorno, che si consumò la miccia che avrebbe portato all’evento drammatico.
La notte fatale tra il 15 e il 16 maggio 1903
Quando la primavera del 1903 arrivò a Milano, non portò con sé solo l’aria mite e le giornate che si allungavano. Nel piccolo appartamento di Via Macello 25, la tensione tra Alberto Olivo ed Ernestina Beccaro era ormai diventata una presenza costante e palpabile, un’ombra che sembrava infiltrarsi negli oggetti, nelle stanze, persino nei silenzi. Le discussioni, secondo varie testimonianze raccolte dopo i fatti, si erano fatte più frequenti nelle settimane precedenti; i toni, più duri; i nervi, più scoperti. Perfino i vicini che abitavano sullo stesso pianerottolo dissero di aver udito alterchi sempre più accesi nelle tarde ore della sera.
Era sabato 15 maggio 1903, e quel giorno sembrò trascorrere senza nulla che facesse presagire l’imminente catastrofe. Olivo, come ogni altro dipendente milanese che lavorava in fabbrica o negli uffici amministrativi, era rientrato a casa nella seconda parte del pomeriggio. Ernestina aveva passato la giornata fuori, probabilmente in giro per negozi e commissioni, come era solita fare. Nulla, almeno all’apparenza, lasciò intuire che poche ore dopo sarebbe avvenuto uno degli uxoricidi più crudeli e discussi della storia milanese.
Le ultime ore di "normalità"
Secondo la ricostruzione proposta in tribunale e ripresa dai giornali dell’epoca, la serata era cominciata come tante altre. Olivo lamentava un malessere fisico, forse febbrile, e un senso crescente di agitazione. Alcune testimonianze successive riferirono che parlava da giorni di dolori, di oppressione al petto, della sensazione di essere “senza forze”, come disse anche al suo superiore. In aggiunta, aveva accumulato un nervosismo che non trovava sfogo, alimentato dai continui screzi familiari.
Ernestina, dal canto suo, non era affatto dell’umore per smussare gli angoli. Le tensioni economiche e le differenze caratteriali si erano trasformate, ormai da mesi, in un braciere sempre pronto a riaccendersi. I litigi — per come sarebbero stati descritti in seguito — spesso esplodevano per questioni banali, ma non tardavano a degenerare in accuse reciproche, rinfacci, recriminazioni sulla gestione dei soldi o sulle frequentazioni della giovane donna. E quel sabato, complice l’ora tarda e forse qualche discussione cominciata a cena, la situazione precipitò ancora una volta.
L’alterco che aprì il baratro
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti e confermato dallo stesso Olivo nella confessione, il litigio di quella notte assunse contorni più violenti del solito. Ernestina avrebbe rivolto al marito una serie di ingiurie pesanti, non solo nel contenuto ma nel modo in cui venivano inflitte. Le cronache riferirono che toccavano i nervi più sensibili dell’uomo: la sua capacità di mantenere la famiglia, la sua avarizia, la sua virilità.
Olivo, già provato da giorni di tensione e in evidente stato di prostrazione, avrebbe reagito dapprima in modo passivo, poi in modo sempre più nervoso. Le parole della moglie, acuminate ed incalzanti, lo avrebbero raggiunto nei punti in cui si sentiva più fragile. Ciò che accadde dopo venne spiegato dalla difesa come un improvviso sprofondamento in uno stato di alterazione mentale, un “offuscamento”, un “delirio febbrile”, termini che allora entravano a fatica nelle aule giudiziarie ma che sarebbero diventati centrali nel processo.
Secondo la confessione, un impulso improvviso, violento e incontrollabile, attraversò Olivo.
Un impulso che — come avrebbe sostenuto davanti alla Corte — non gli lasciò il tempo di riflettere, né di comprendere appieno ciò che stava facendo.
Il momento del delitto
Olivo si alzò, travolto dall’agitazione. Dalla cucina prese un coltello di grandi dimensioni. Non urlò, non minacciò: questo particolare emerse chiaramente nelle ricostruzioni. Tornò nella camera in cui Ernestina era sdraiata sul letto. E in quell’istante, il confine tra discussione e tragedia si cancellò per sempre.
Secondo le perizie medico-legali e i rilievi dell'epoca, il colpo iniziale fu seguito da una sequenza frenetica e brutale: fendenti portati al ventre, al torace, inflitti con una violenza così intensa da lacerare organi vitali e rendere immediato il dissanguamento. Ernestina non ebbe il tempo di reagire né di difendersi. La rapidità dell’assalto, la traiettoria dei colpi e il fatto che il suo corpo si trovasse ancora nella posizione quasi naturale a letto — come riferì il medico legale durante il processo — raccontavano di un attacco improvviso, fulmineo, inarrestabile.
Poi, all’improvviso, silenzio.
Olivo avrebbe raccontato, mesi dopo, di non aver compreso cosa fosse accaduto. Disse di aver smarrito la memoria proprio nel momento dell’aggressione, come se una cortina densa avesse avvolto la sua coscienza nel punto più critico dell’azione. Sostenne di ricordare solo una confusione indistinta, un’ombra di rumori e un sapore ferroso nell’aria. Nulla di più.
La mattina dopo: il risveglio accanto al cadavere
Nella sua versione dei fatti — quella che avrebbe ripetuto più volte agli inquirenti, ai periti e in aula — Olivo affermò di essersi “risvegliato” la mattina del 16 maggio, con un dolore pulsante alla testa e un senso di nausea. Aprendo gli occhi, avrebbe trovato accanto a sé il corpo senza vita della moglie.
La scena, per come fu descritta dai rapporti della polizia e dalle cronache dell’epoca, era talmente brutale da impressionare persino gli agenti più esperti: Ernestina giaceva supina, il busto spalancato dai colpi, il lenzuolo intriso di sangue rappreso. In alcuni resoconti si parlò persino del coltello rimasto vicino al corpo. Olivo, secondo la sua narrazione, non avrebbe immediatamente capito la portata dell’orrore: avrebbe vagato per l’appartamento in stato confusionale, come un uomo estraneo a sé stesso.
Fu in quel momento, nel silenzio plumbeo di una domenica mattina milanese, che il delitto si rivelò in tutta la sua crudezza.
Una scelta irreversibile
La reazione di Olivo in quelle prime ore successive all’omicidio divenne uno dei punti più controversi dell’intero caso. Avrebbe potuto costituirsi, chiamare i carabinieri, bussare alla porta dei vicini. Invece, qualcosa dentro di lui scelse la via dell’occultamento. Un gesto che, nel processo, avrebbe diviso periti e giuristi.
Secondo la ricostruzione che lui stesso consegnò agli atti, dopo un tempo indefinibile trascorso in stato di shock, prese una decisione che mutò il senso della vicenda: fare sparire il corpo della moglie. Da lì iniziò la fase più atroce dell’intera vicenda — quella che avrebbe scioccato la città e l’Italia intera.
Ma per giungere a quel punto, occorre comprendere anche il passaggio successivo: il momento in cui la razionalità dell’uomo, o ciò che ne restava, riprese il controllo. E la notte del delitto lasciò spazio a un giorno che, nelle sue azioni, appariva freddo, calcolato, quasi metodico.
Una nuova, agghiacciante pagina della storia stava per aprirsi.
L’orrore dell’occultamento e il viaggio macabro
Se l’omicidio di Ernestina Beccaro aveva già scosso la tranquillità di via Macello, ciò che seguì superò ogni immaginazione. Per quanto la violenza della notte precedente fosse stata estrema, la lucidità e la metodicità con cui Alberto Olivo gestì il corpo della moglie mostrarono una determinazione quasi glaciale, capace di sconcertare anche chi già lo conosceva come uomo fragile e nervoso.
Lo smembramento: una crudeltà calcolata
Secondo la confessione di Olivo e le perizie dell’epoca, dopo essersi reso conto della morte della moglie, l’uomo non reagì con la disperazione immediata che molti avrebbero atteso. Al contrario, prese una decisione che segnò il passo successivo della tragedia: fare sparire il corpo. Con una freddezza spaventosa, lo trasportò nella cucina, il locale più adatto per operazioni di tale natura. Lì, armato di coltelli e strumenti da taglio, iniziò lo smembramento: separò testa, braccia e gambe dal tronco, procedendo con una precisione che contrastava con la presunta perdita di lucidità durante l’omicidio.
Il tronco, aperto per estrarre gli organi interni, divenne il simbolo della ferocia del gesto. Secondo i cronisti, Olivo gettò le viscere nello scarico del gabinetto, riducendole in pezzi minuscoli, come se volesse eliminare ogni traccia possibile. Questo dettaglio, riportato con raccapriccio dalla stampa e dai medici legali, catturò l’attenzione dell’opinione pubblica: non era più solo un omicidio passionale, ma un atto di deliberata efferatezza.
Il trattamento dei resti e l’imballaggio
Non contento di aver smembrato il corpo, Olivo si occupò della conservazione dei resti. Utilizzò sostanze chimiche come creolina e naftalina, probabilmente per rallentare la decomposizione e ridurre l’odore, un’azione che dimostrava una pianificazione fredda e metodica. I resti furono poi sistemati in un baule da viaggio, preparato per il trasporto. Ogni parte del corpo trovò il suo posto in quella custodia macabra, che doveva diventare il mezzo per rendere la vittima irrintracciabile.
Il viaggio verso Genova
Il giorno seguente all’omicidio, Olivo intraprese un viaggio che, secondo la sua confessione, aveva come unico scopo quello di liberarsi del corpo. Salì su un treno per Genova, portando con sé il pesante baule. Il viaggio, lungo e complesso, era già di per sé un atto che contraddiceva la tesi dell’infermità mentale immediata: muoversi con un carico così ingombrante richiedeva una decisione razionale, un piano preciso.
Arrivato nel capoluogo ligure, si recò al porto, dove noleggiò una barca per una breve escursione in mare aperto. L’intento era chiaro: scaricare il baule al largo, affidandolo alle correnti, con la speranza che il mare lo inghiottisse definitivamente. L’atto finale, che avrebbe dovuto cancellare ogni prova dell’atroce delitto, si rivelò tuttavia vano.
Il fallimento e il destino del baule
Nonostante il piano, la natura ebbe la meglio. Il baule, pesante ma non abbastanza per affondare rapidamente, venne presto riportato a riva dalle correnti. Il mare, che Alberto Olivo aveva scelto come complice silenzioso del suo piano, si rivelò traditore.
Nonostante l’accurata preparazione del baule e il peso considerevole dei resti, la corrente e la natura stessa dell’acqua impedirono all’oggetto di sparire. Ben presto, alcuni pescatori e sorveglianti portuali notarono un movimento insolito nei pressi della Darsena genovese: un baule, enorme e ingombrante, che galleggiava in maniera innaturale. L’allarme fu immediato, e le autorità intervennero per recuperarlo.
L’apertura del baule: l’orrore
Quando il baule venne aperto, la scena che si presentò agli occhi degli agenti fu di una tale brutalità da impressionare profondamente chiunque fosse abituato anche a casi di cronaca violenta. I resti di Ernestina Beccaro erano all’interno, smembrati e trattati con sostanze chimiche, i tessuti macchiati di sangue ormai rappreso. La testa, gli arti e il tronco residuo erano disposti in modo ordinato, quasi chirurgico. Gli investigatori, pur avendo visto delitti efferati, rimasero sconvolti dalla lucidità del gesto e dalla cura con cui Olivo aveva tentato di nascondere ogni traccia.
La prima fase delle indagini fu dedicata all’identificazione della vittima. Nonostante la frammentarietà dei resti, i medici legali riuscirono a confermare che si trattava di Ernestina Beccaro, moglie di Alberto Olivo. Gli elementi a disposizione, uniti alle testimonianze raccolte, puntavano subito verso Milano come luogo dell’omicidio e verso il marito come principale sospettato.
L’indagine: tracce e sospetti
La polizia milanese ricevette rapidamente notizia del ritrovamento a Genova. Le autorità intrapresero un collegamento tra il baule recuperato e l’uomo che risultava essere marito della vittima. La logica del crimine era chiara: nessun altro avrebbe potuto avere accesso a un corpo così preparato e trasportato con tale metodo. La velocità con cui le indagini furono condotte è testimoniata dalla rapidità con cui la polizia risalì ad Alberto Olivo, rintracciandolo a Milano poco dopo il ritrovamento del baule.
La confessione: parole di un uomo sconvolto
Quando Olivo venne raggiunto dalle autorità, il suo crollo fu immediato e totale. In uno stato di prostrazione, e secondo i cronisti con un misto di delirio e disperazione, confessò ogni fase del delitto: l’omicidio, lo smembramento e il tentativo di occultamento in mare. Raccontò nei dettagli le ore della notte del 15 maggio, la confusione che lo aveva travolto, e le azioni metodiche successive, compreso il trasporto dei resti e il viaggio verso Genova.
La sua narrazione non lasciava spazio a dubbi sulla sequenza dei fatti, ma sollevava un interrogativo centrale: fino a che punto la lucidità mostrata nel nascondere il corpo fosse compatibile con la tesi della follia transitoria sostenuta dalla difesa. Gli investigatori rimasero impressionati dalla coerenza della confessione, ma anche dallo sconcertante contrasto tra l’impeto del delitto e la freddezza delle azioni successive.
Il clamore mediatico
Il caso, già macabro di per sé, divenne immediatamente notizia nazionale. I giornali dell’epoca descrissero la scena con toni da cronaca nera, enfatizzando la freddezza con cui Olivo aveva gestito il corpo e la sorprendente fallibilità del mare, che aveva restituito alla città il segno tangibile del delitto. I lettori furono colpiti non solo dall’omicidio, ma dall’orrore del tentativo di cancellare ogni prova con una lucidità spaventosa.
L’opinione pubblica, scossa dall’accaduto, iniziò a interrogarsi sul carattere di Olivo, sulle cause che avevano portato a un gesto così estremo e sulle implicazioni della sua presunta infermità mentale. La scena era pronta per il capitolo successivo: il processo, che avrebbe messo in discussione la responsabilità penale, la psicologia dell’imputato e i confini della giustizia.
Il processo e la battaglia psichiatrica: giugno 1904
L’eco dell’omicidio e del macabro tentativo di occultamento aveva attraversato tutta l’Italia. Quando il caso approdò a Milano, nel giugno del 1904, il tribunale divenne teatro di un dibattito che non riguardava solo la colpevolezza dell’imputato, ma anche le frontiere della psichiatria giudiziaria, la nozione di provocazione e la misura della responsabilità penale. La città si preparava a un processo destinato a scandalizzare e a lasciare un segno indelebile nella storia giudiziaria italiana.
La difesa: provocazione ed infermità mentale
La difesa di Alberto Olivo, guidata dall’avvocato Enrico Gherardi, si basò su due pilastri principali. Il primo fu l’attenuante della provocazione: si sostenne che le continue e violente ingiurie di Ernestina avevano creato un clima insopportabile, tale da destabilizzare un uomo già fragile e condurlo a un raptus. I dettagli delle discussioni furono citati in aula con precisione, in modo da dimostrare che la tensione quotidiana aveva raggiunto livelli tali da scalfire la sanità mentale di Olivo.
Il secondo pilastro fu l’infermità mentale, parziale o transitoria, con cui la difesa cercò di spiegare il comportamento dell’uomo durante l’omicidio. Furono chiamati a testimoniare i maggiori esperti di psichiatria e medicina legale dell’epoca, i quali argomentarono che Olivo avesse agito in uno stato di delirio febbrile o di follia transitoria, aggravato da un esaurimento nervoso cronico e da uno stato di malessere fisico. In altre parole, sostenevano che al momento del delitto l’imputato non fosse pienamente capace di intendere e di volere.
L’accusa e il contrasto sulle perizie
Dall’altra parte, la pubblica accusa e la parte civile contestarono con forza questa tesi. Sottolinearono come la lucidità mostrata da Olivo nello smembramento del corpo, nell’uso delle sostanze chimiche per rallentare la decomposizione e nella pianificazione del trasporto verso Genova fosse incompatibile con l’ipotesi di infermità mentale. La domanda, essenziale e drammatica, risuonò per tutta la durata del dibattimento: se Olivo fosse stato incapace di intendere e volere al momento dell’omicidio, come aveva potuto organizzare con tanta precisione l’occultamento del cadavere?
La perizia psichiatrica a favore dell’imputato rispose che tali azioni non erano frutto di volontà razionale, ma di automatismi psichici, tipici di chi si trova in uno stato di grave alterazione mentale. L’atto di nascondere il corpo, secondo i periti, non dimostrava lucidità criminale, bensì reazioni istintive e meccaniche di un uomo in preda al panico e al disorientamento.
Il verdetto: un clamore nazionale
Dopo intense sedute e l’esame delle varie perizie, la Giuria Popolare emise un verdetto che lasciò l’opinione pubblica senza parole: Alberto Olivo fu riconosciuto colpevole di omicidio, ma con l’applicazione delle massime attenuanti generiche per provocazione e infermità mentale parziale. La pena inflitta fu di 13 mesi di reclusione, significativamente ridotta rispetto alla gravità del crimine.
Il tribunale considerò anche il periodo di custodia cautelare già scontato dall’imputato, così che Olivo, di fatto, uscì di prigione poco tempo dopo la lettura della sentenza. La decisione suscitò un vero e proprio scandalo: giornali, intellettuali e cittadini si chiesero come fosse possibile che un uomo avesse ucciso e smembrato la moglie, tentato di occultare il corpo e ricevuto una pena così lieve.
Reazioni ed implicazioni
L’esito del processo Olivo sollevò interrogativi profondi sul funzionamento della giustizia e sull’interpretazione della psichiatria in tribunale. Molti criticarono quello che percepirono come un abuso dell’attenuante della provocazione, sostenendo che la valutazione morale dell’antefatto — la presunta cattiveria della vittima — aveva influenzato in modo eccessivo il giudizio penale.
Il caso divenne un simbolo dell’epoca, un monito su quanto fosse fragile il confine tra responsabilità morale e incapacità giudiziaria, e su quanto le perizie psichiatriche potessero risultare interpretabili e soggette a controversie. Le discussioni legali e mediatiche sul caso Olivo durarono anni, contribuendo a formare un precedente nella storia italiana sulla gestione dei crimini domestici, dell’infermità mentale e delle attenuanti nel diritto penale.
L’eredità di un caso estremo
Al termine del processo, Alberto Olivo tornò alla sua vita quotidiana con una libertà sostanziale, mentre l’immagine di Ernestina Beccaro rimase impressa nella memoria collettiva come vittima di uno dei delitti più atroci della Milano di inizio Novecento. Il caso non fu ricordato solo per l’efferatezza dell’atto, ma soprattutto per il dibattito che ne seguì, capace di scuotere le certezze sul concetto di giustizia, sulle responsabilità individuali e sulla percezione pubblica della colpa.
L’omicidio, lo smembramento, il viaggio in mare e il processo scandaloso rimasero nelle cronache come un monito della complessità della mente umana e della fragilità dei sistemi giudiziari nell’affrontare casi estremi. La storia di Olivo e Beccaro continua a essere studiata non solo dai giuristi, ma anche da storici e criminologi, come esempio lampante di come la giustizia, la psichiatria e la società possano interagire in modi imprevedibili di fronte al male.
Dopo la scarcerazione, Alberto Olivo tornò ad una vita regolare. Dopo un periodo trascorso all’estero, rientrò a Milano, si risposò e la seconda unione fu più serena della precedente. Visse in città per molti anni, senza altri eventi degni di nota, fino alla morte, avvenuta il 18 dicembre 1942. Le cronache dell’epoca riferiscono che fosse solito frequentare i caffè di Piazza San Fedele, dove talvolta raccontava la propria vicenda personale a chi lo riconosceva.
Stefano Brigati - Redattore
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